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Tra decoro e degrado, la fotografia a rischio

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"Fatti vedere!", ci si salutava così. Scrisse Luciano Bianciardi, genio sottovalutato del Novecento, che nella sua Milano anni Sessanta le relazioni umane per strada erano "un fatto puramente ottico. Non trovi le persone, ma soltanto la loro immagine".

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Jacob Riis: Ragazzini di strada a New York, circa 1890

Non sapeva, o forse lo sapeva, che grandi pensatori del secolo scorso (Kracauer, Simmel, Benjamin, ma anche Canetti) avevano detto la stessa cosa, con molte più parole. Lo spazio della metropoli moderna è un palcoscenico, la vista è il senso che l'uomo metropolitano (il flâneur di Baudelaire) deve sviluppare al più alto grado, per la propria sopravvivenza sociale.

Per questo la città moderna è stata la città fotografata, le due espressioni sono praticamente sinonime. Che la metropoli e la fotografia siano coetanee non è affatto un caso. Si può affermare che l'una non avrebbe potuto nascere senza l'altra. O almeno che una abbia atteso per nascere che nascesse l'altra (la fotografia avrebbe potuto essere inventata anche nel Seicento...).

Tutte le città della storia hanno voluto farsi vedere. Cioè rendere visibile il potere che le governava. Ciascuna a suo modo però. La città antica, con l'emergere dei suoi templi marmorei sulle case di legno dei poveri. La città medievale, con il potere da cercare nel labirinto irregolare delle sue vie di artigiani. La città barocca, con la prospettiva che obbligava lo sguardo a convergere sul palazzo del signore.

La città borghese, con la facciata dei palazzi allineati sui suoi viali, schermo e argine e limite invalicabile delle periferie proletarie.

Il potere sulla città borghese si esercita visivamente attraverso l'idea di decoro. Con grande capacità di sintesi, nel libro Corpi e recinti, uno studioso delle forme e delle metafore politiche, Pierpaolo Ascari, ha collegato la nascita ottocentesca del concetto di decoro urbano alle politiche di repressione della povertà e dell'immigrazione nelle nostre città di oggi: i decreti sicurezza, le ordinanze anti-bivacco, le multe ai mendicanti, scrive, non sono che la forma più aggiornata di un tentativo furbesco di spostare su un piano estetico la pratica autoritaria dell'esclusione sociale.

Ma così l’esclusione da una piazza (o da una panchina) diventa l'espressione visibile dell’emarginazione economica, sociale, politica, anche razzista. Con l’accusa di attentare al decoro urbano si escludono dallo spazio pubblico gli emarginati, gli sgraditi, gli irregolari. Lo spazio pubblico diventa meno pubblico, l’arredo urbano diventa uno strumento di esclusione, di punizione, di revanscismo di classe.

Mi sono sempre meravigliato che Michel Foucault, che ha descritto i modi in cui il potere costruisce questo genere di discorso politico non verbale, molto spesso visuale, lui teorico della visione panottica come paradigma del potere, lui fantastico analista delle Meninas di Velázquez, abbia prestato così poca attenzione al ruolo che quel potere ha affidato fin dall'inizio alla fotografia urbana: di rendere visibile, appunto, la sua idea di decoro, e di condannare le sue infrazioni.

Anche il mio amico Ascari non sfugge a questa distrazione, o forse semplicemente dà per scontato che una operazione di controllo sociale che si fonda su una potentissima componente visuale abbia come strumento di rappresentazione il media-madre della visualità contemporanea, la fotografia.

Mi permetto allora di aggiungere io qualche domanda che rovescia sulla fotografia e la sua storia quel meccanismo di estetizzazione di una imposizione di potere sullo spazio.

In che misura la fotografia urbana, in tutti i suoi diversi generi, ha dato una mano a costruire una ideologia del decoro come strumento di esclusione sociale? Esistono fotografi del decoro?

AscariForse sì, ma i loro nomi non sono quelli celebrati dalle storie della fotografia. Sono i nomi meno noti, spesso ignoti, dei fotografi di vedute urbane commerciali, sicuramente i fotografi Alinari sopra tutti, ma solo come modello e punta di diamante di una massa incredibile di fotografi cittadini che produssero le cartoline illustrate, primo grande medium visuale del Novecento, umili e potentissime nell’imporre il marchio borghese sul volto della città storica.

Ma fermarci alla loro scoperta propaganda dell’ideologia urbana capitalista sarebbe troppo facile. Io credo che i feri fotografi del decoro siano stati quelli che hanno lavorato per antinomia, mostrando il suo opposto, il concetto gemello di degrado.

Sia quelli che lo hanno fatto perché pagati per farlo, sia quelli che lo hanno fatto per scelta propria, e perfino quelli che lo hanno fatto credendo di combattere le ingiustizie e le storture della città borghese.

Penso a Charles Marville, che fotografò la vecchia incasinata Parigi che il suo committente barone Haussmann, prefetto della Senna, andava demolendo per fare spazio ai decorosissimi boulevard della Parigi elegante: l’estetizzazione dell’ideologia passava con lui attraverso il nostalgico di una città pittoresca, ma purtroppo da abbattere perché “insalubre”.

Ma penso anche alle fotografie dei riformatori sociali, a Jacob Riis e alla sua battaglia contro gli slum della Manhattan bassa: il bagliore dei suoi flash al magnesio confondevano volentieri la bonifica degli edifici con la bonifica degli esseri umani.

Ma penso anche ai rivoluzionari del paesaggio modernista, ai foto-topografi dalla vena pop, le cui rappresentazioni crude di parcheggi, incroci, highway oppresse dai neon, sembrano una critica feroce a un modello di sviluppo urbano fondato sulla merce e sull’automobile. Lo furono davvero? Oppure, come mi sembra oggi, dietro quella apparente neutralità ("oggi il mondo è fatto così…") c’era un giudizio estetico malcelato, sarcastico e perfino un po’ snob ("…cioè è squallido")?

Se degrado è il termine complementare necessario di decoro, allora rappresentare fotograficamente il degrado finisce per essere un’invocazione di decoro. Ma il decoro, ci dice giustamente Ascari, non è neutrale, è uno strumento di discriminazione sociale.

La stessa fotografia ambientalista, oggi dirompente (pensate al lavoro di Edward Burtynsky e colleghi in Antropocene), rappresentando un pianeta in disfacimento, potrebbe ancora essere recuperata dalle ideologie sviluppiste, per esempio quelle che sostengono che la salvezza dalla catastrofe climatica arriva da un maggiore investimento in tecnologie e non da un’idea del limite.

Per sfuggire a questa trappola, i fotografi dovrebbero rivendicare un’alternativa al degrado, diversa dal decoro: un riscatto dell’ambiente urbano in termini di inclusione, giustizia, cittadinanza.

Purtroppo, la fotografia sa dire tanto bene quel che c’è, quanto è afasica su quel che ci dovrebbe essere.

La domanda dunque è pesante: non sarà che qualsiasi fotografia dell’ambiente urbano, sia quella che ne glorifica il decoro, sia quella che ne stigmatizza il degrado, porta acqua al mulino della esclusione sociale? La fotografia, col peso della sua relazione apparentemente inevitabile al mondo così come si vede, non tende inevitabilmente ad avere un cuore reazionario?

Ho già accennato a un lavoro presentato alla Biennale Fotoindustria di Bologna, che mi ha colpito molto. È quello di Délio Jasse, giovane fotografo angolano che ha affrontato la vicenda tormentata dell’indipendenza del suo paese in un modo sorprendente. Anche le sue sono fotografie di un degrado: quello dell’edilizia post-coloniale, in un paese prima devastato dalla guerra civile, poi aggredito oggi dalla scintillante promessa di ricostruzione dei cinesi.

Ma Jasse non lascia riposare le foto del suo archivio nella loro pura e semplice attestazione di uno stato delle cose. Le accosta, le sovrappone, le distorce. Gli edifici dei dominatori portoghesi si intrecciano ai grattacieli delle imprese orientali: il degrado coloniale ereditato e il decoro neocoloniale si mescolano e stridono: degrado e decoro vengono mostrati come due facce della stessa medaglia, due utili ingredienti di una linea continua di espropriazione dell’autogoverno di un popolo.

E il potere non si nasconde dietro le facciate degli edifici: Jasse lo tira fuori a viva forza, ce ne mostra la prepotenza sotto forma dell’impronta dei timbri burocratici (“campione senza valore”, “liquidato”, “copia”…) ingrandita e sovrimpressa a lettere dorate ai paesaggi urbani.

Allora dico no, la fotografia non è per forza al servizio dei poteri urbani. Non è per forza l’ancella del decoro sotto le vesti della cronista del degrado. Se lo vuole, può essere l’immagine che smaschera il timbro del potere sull’ideologia della città bella, buona e ordinata.


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